Il
caso Ganzer e l’eclissi
di una giustizia senza credibilità
di Carlo Nordio
La motivazione della sentenza di condanna del comandante
dei Ros, pubblicata in questi giorni, si è rivelata particolarmente severa. Il
generale Ganzer, conosciuto e stimato dalle Procure di mezza Italia sin dai
tempi delle indagini sulle brigate rosse, è stato descritto come un arrivista
ambizioso capace di contrattazioni scellerate con i trafficanti di droga per
obiettivi di prestigio personale. La psicologia elementare in realtà dubita che
un alto ufficiale, già onorato di una straordinaria e gloriosa carriera, possa
comprometterla per un sussulto di vanità. Ma le sentenze non si discutono,
trovando in se stesse, come la virtù degli stoici, la loro giustificazione e la
loro sorte; sorte peraltro provvisoria, visto che il roccioso ufficiale ha già
presentato un robusto appello. Tuttavia le perplessità rimangono.
Sono del resto le perplessità del cittadino ordinario, il quale nella sua
rude pragmaticità non presta una cieca e puerile condiscendenza al prestigio dei
verdetti umani, e si domanda una cosa: se prima il capo del Sismi, poi quello
della Polizia e ora il capo dei Ros sono stati a vario titolo inquisiti e
processati, e se dunque i massimi garanti della nostra sicurezza sono sospettati
di esser delinquenti (nel senso letterale, di chi delinque) i casi sono due. O è
guasto il Paese, o lo è la Giustizia. E poiché sia il generale Pollari, sia De
Gennaro sia il generale Ganzer occupano ancora cariche importanti, avendo goduto
e godendo della stima dei vari governi avvicendatisi negli ultimi anni, la
risposta più plausibile è la seconda: malgrado l’obbligato e talvolta untuoso
ossequio formale alla sua regale maestà, i politici e i cittadini alla Giustizia
non credono più.
Non ci credono perché il nostro sistema penale è lento e contraddittorio,
e alla fine diventa autofagico: divora sé stesso come un ruminante pigro,
generando un prodotto diverso e opposto da quello con cui si era nutrito. I casi
dell’on Mannino, incarcerato per molti mesi, o del giudice Carnevale, cacciato
dalla Cassazione con accuse infamanti, entrambi poi assolti e reintegrati, non
sono isolati. Essi invece dimostrano che le pietanze iniziali che avevano
gonfiato le indagini erano avvelenate e insidiose, e sono state evacuate dopo
aver prodotto intossicazioni funeste. E’ possibile che tra qualche anno, quando
le vicende di questi tre servitori dello Stato si saranno concluse, risuoni il
solito petulante ritornello, che se la Giustizia ha commesso degli errori, essa
stessa li ha comunque corretti. Peccato che nel frattempo alcune vite siano
state frantumate, e l’immagine del Paese ne sia uscita devastata.
Queste considerazioni non sono affatto critiche alle singole sentenze, le
quali, come tutte le valutazioni umane, sono precarie e fallibili quanto la
nostra imperfetta natura. Sono critiche a un sistema penale diventato
tentacolare ma asfittico, invasivo ma arrugginito. Oggi non v’è categoria che
non si senta intimidita e mortificata da un’incombente valanga di indagini. Dai
medici ai giornalisti, dagli imprenditori ai commercianti agli artigiani,
milioni di italiani sono indagati per ragioni che , nella stragrande
maggioranza, si rivelano infondate. Gli stessi magistrati sono (siamo) oggetto
di denuncie sempre più numerose, frutto di una cultura del sospetto radicata e
forse fruttuosa. Dopo aver divorato sé stesso il sistema inghiotte, come
Saturno, anche le sue creature.
I rimedi esisterebbero, e sarebbero di due tipi. Il primo è realistico e
coraggioso, e perciò improponibile: porre limiti rigorosi all’esercizio
dell’azione penale, con un filtro nei confronti di speciali categorie. Un tempo
esisteva, per poliziotti e carabinieri, una sorta di guarentigia amministrativa,
che proteggeva non le loro persone, ma le loro funzioni, da iniziative
giudiziarie temerarie o inopportune. Personalmente la reintrodurrei
nell’interesse dei cittadini, come la estenderei ai medici nell’interesse della
sanità. Ma so di sognare. E allora ecco il secondo rimedio: l’efficienza e la
celerità. La condanna del comandante dei Ros interviene dopo oltre dieci anni di
indagini, e a circa quindici dai fatti contestati. Tra l’appello e la cassazione
è presumibile che arriveremo al ventennio. Troppi per condannare un colpevole.
Un’eternità per assolvere un innocente. Ma forse sto sognando anche qui.
Carlo Nordio