Libertà, ch’è sì cara…

 

Le prodezze di un certo gruppuscolo di allievi particolarmente inclini a ritagliarsi un po’ di spazio ogniqualvolta e dovunque fosse possibile sono già state riferite qua e là. Senza eccedere in particolari - anche la privacy ha le sue esigenze - si potrebbe però aggiungere qualche ulteriore dettaglio di colore.

E’ doveroso premettere che, anche a questo riguardo, l’ intrico fra realtà e diceria è difficile da sciogliere. Secondo alcuni esisterebbero addirittura fotografie che testimoniano i misfatti che saranno narrati fra poco mentre, secondo una corrente di pensiero ben più credibile, si tratterebbe solo di fantasie create surrettiziamente al solo scopo di screditare alcuni colleghi. Confidando nella serenità di giudizio di chi a quei tempi era in Accademia, si riporta comunque la leggenda così com’è giunta alle orecchie di chi scrive.

Si racconta che nostri, come tutti gli

altri allievi, lottassero contro il freddo nei rigidi inverni modenesi e contro il caldo quando l’afa estiva si faceva soffocante. Lottavano, poi, contro i loro capelli che fra l’ intervallo del mattino (in cui erano pure stati ben potati da Napoleone) e l’ ora dell’ adunata per la libera uscita crescevano così rapidamente che, più spesso del contrario, essi erano scartati. E, se non era per i capelli, era per la polvere da qualche parte, o per le scarpe o per i guanti, ecc..

Lottavano poi contro la noia dello studio, contro la malasorte di un’ interrogazione a sorpresa, contro gli stormi di paduli in picchiata, contro il fucile sporco e contro molto altro ma, soprattutto, lottavano contro i morsi della fame che ormai nel pieno del loro secondo anno li aveva ridotti pelle e ossa.

 

Un saggio detto insegna che la necessità aguzza l’ ingegno e questo valse anche per i nostri. Per farla breve, essi, con le budella attorcigliate per la fame, si incontravano spesso nei pochi momenti liberi e sempre più si commiseravano a vicenda per le loro acute sofferenze. Un bel giorno - secondo l’ altro detto per cui l’ unione fa la forza - i nostri decisero che era indispensabile uscire dall’ impasse e, detto fatto, passarono all’ azione.

 

Nella notte successiva cercarono (e trovarono) una via ’’ufficiosa’’ per entrare nelle cucine e ne riemersero carichi di ogni ben di Dio. Cercarono poi (e, di nuovo, trovarono) il modo di accedere alla famigerata Aula 33. La ispezionarono con occhi nuovi e decisero che poteva essere un ritrovo occulto ideale: infatti era diametralmente opposta alle camerate e per di più riscaldata. Pregarono infine che una congiunzione astrale favorevole consentisse loro di andare presto in libera uscita; trovata anche questa in tempi sorprendentemente brevi, si incamminarono decisi verso il negozio dell’Unione Militare in via Farini dove uno di essi acquistò a rate un rutilante tostapane doppio. Poche libere uscite furono così brevi. I nostri, con l’ anima gonfia di orgoglio per l’ eccitante bravata e l’ acquolina in bocca per l’ imminente banchetto, rientrarono subito e - dopo aver ritualmente strusciato il naso del mascherone - tornarono rapidamente in camerata per darsi appuntamento di lì a poco in Aula 33. La fame era così forte che qualcuno neppure si cambiò tant’ è che si diede da fare assieme al resto del gruppetto intorno ad immensi insaccati, vasi di salse, barattoli di olive, prolunghe elettriche e taglieri di circostanza (la cattedra e la lavagna luminosa) ancora impeccabile nella divisa storica.

Pur se l’ accuratezza fu massima, la perfezione sfuggì. Infatti, il mattino successivo l’ insegnante perplesso ed un po’ disgustato si trovò a dover rimuovere dalla lavagna luminosa briciole di pane e bucce di salame. Saettò con sguardo severo tutta la classe - sorpresa ed un po’ divertita - ma non si avvide di alcuni allievi che, con assoluta noncuranza per la vicenda, osservavano estremamente interessati il volo di una mosca.

 

QuestiI ’’seminari gastronomici’’ furono ripetuti spesso, ad ogni possibile orario, senza che nulla trapelasse. Per la verità, un certo comandante di plotone dopo un po’ ebbe il sentore che ogni tanto qualcosa di strano succedesse ma neppure nelle sue improvvise irruzioni riuscì a sorprendere i nostri in fallo. In una di queste occasioni lo spirito di corpo funzionò a meraviglia, quando nel cuore della notte il Tenente irruppe in camerata e scoprì un letto disfatto e vuoto. Puntò allora una torcia in faccia all’ allievo che dormiva beato in quello accanto e gli chiese bruscamente dove fosse l’ assente ma dovette accontentarsi (e forse non se n’ è ancora dato pace) di una risposta molto prossima a quella di Caino: ’’Sono forse io il custode di mio fratello Abele?’’

 

 

 

 

ultimo aggiornamento:13/03/2008 15.12 by PdeW