Come fare silenzio e vivere felici

 

Se un garante della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’ Uomo avesse varcato il portone dell’ Accademia (o meglio ancora, il cancello di Corso Casalgrande, più vicino agli Studi) forse qualcosa di sostanziale nella vita dell’ allievo sarebbe cambiato. Infatti, per due ore la mattina ed altrettante la sera, ogni giorno (con lo sconto del 50% in quelli di libera uscita) gli allievi venivano rinchiusi negli sterminati stanzoni dove tentavano di imparare tutto quello su cui il giorno dopo qualcuno avrebbe potuto interrogarli.

Dato che le molte ore impegnate durante la giornata dalle lezioni, dalle esercitazioni e dallo sport erano anelastiche, il tempo da destinare allo studio senza vanificare il resto era forzatamente programmato prima dell’ inizio e dopo la fine delle attività. Così, imbambolati al mattino per i residui di sonno della notte ed altrettanto poco svegli nel tardo pomeriggio per essere già a corto di energie, gli allievi si avviavano di corsa verso quegli indimenticabili luoghi di supplizio.

 

La meticolosa ripartizione dei banchi in quattro settori di tre file - tanti quanti le compagnie ed i plotoni - dava già l’ idea di come, nell’ Istituto, nulla poteva essere meno che geometrico e squadrato (e c’ è chi sostiene che in Accademia anche l’ acqua fosse costretta a bollire a novanta gradi per conformarsi all’ ossessione degli angoli retti). La turbativa venne al secondo anno, quando le compagnie si ridussero a tre, ma il problema fu risolto.

Il tramestio degli allievi che tiravano fuori dal banco - ora o mai più - il materiale cartaceo necessario a rendere proficue le due ore successive si spegneva di colpo al suono dell’ apposito segnale di tromba ed il sommesso ronzio dei cervelli in azione ne prendeva il posto. L’ ufficiale di servizio si appollaiava sulla poltroncina della sua cattedra e c’ è da chiedersi come potesse non addormentarsi, lui per primo, in quella noia mortale. Per vincere il sopore, di quando in quando si alzava ed iniziava a camminare su e giù fra i banchi. A quel punto un brusio quasi impercettibile percorreva lo stanzone: gli allievi svegli bisbigliavano un richiamo di allarme a quelli che invece dormivano, nel solidale intento di sottrarli all’ inevitabile castigo. In merito si ricorda un certo ufficiale di servizio, particolarmente scaltro, che calzava scarpe con la suola di gomma allo scopo di sorprendere più facilmente gli allievi in balia dei loro sogni. E, molto spesso, arrivava a bersaglio.

Particolarmente fastidioso era il bagliore freddo ed abbacinante delle centinaia di tubi fluorescenti appesi al soffitto. Tuttavia gli allievi, avvezzi ad ogni disagio e consci della sfida insita nelle difficoltà, in due anni (tre, per qualcuno) ci rimettevano di sicuro la vista ma non trovavano dignitoso protestare.

 

Poi, dire che si facesse tutt’ altro che studiare è eccessivo ma va riconosciuto che le attività complementari, oltre al sonno, erano svariate. Ad esempio, il raccoglimento si prestava perfettamente a curare la corrispondenza con la fidanzata, la

famiglia e gli amici oppure alla lettura di libri e giornali. In entrambi i casi venivano adottati gli opportuni accorgimenti mimetici ed, il più delle volte, si riusciva a non farsi scoprire. Anche il consumo clandestino dei krapfen grandi come canotti, comprati nell’ultimo intervallo al minimarket aperto lì vicino nel secondo anno, era una vera delizia.

 

Poteva capitare che, fuori tempo massimo, un allievo avesse bisogno di qualche cosa rimasta nel banco. Allora faceva scivolare il braccio sotto uno spiraglio di tavoletta e poi lo ritraeva con estrema cautela. Ma, si sa, il diavolo fa le pentole e non i coperchi: un errore nella manovra e lo schianto della tavoletta stessa sul banco rimbombava da un capo all’ altro dello studio svelando il colpevole, che veniva istantaneamente raggiunto dal rituale (ma appena sussurrato, dopotutto si era a studio!): ’’Stia punito’’.

 

 

ultimo aggiornamento:13/03/2008 14.34 by PdeW